"...c'è chi fuma per vizio chi per noia chi per darsi un tono e chi solo perchè a smettere non ce la fa....e c'è chi fuma perchè proprio gli piace...gli piace il gesto di accenderla, di tenerla tra le dita, di sentirla tra le labbra...io, a dirla tutta, sento che questa sigaretta ha un sapore che fa schifo, eppure non riesco a farne a meno...insomma, sì, è una tossicodipendenza anche questa...quindi io sono un drogato...fumo sigarette e non riesco a smettere perchè fumare è l'unica cosa stabile della mia vita in cui tutto il resto è sempre stato precario...ed è proprio per non pensare a quel resto che io fumo...una sigaretta è prendersi una pausa...io sono ancora drogato di pause nonostante quello che mi è successo 7 anni fa quando stava per arrivare la GRANDE PAUSA..."
Ognuno di noi si sarà ritrovato, almeno una volta nella vita, a chiedersi che cosa voglia dire per un militare andare in missione. Ci si chiede il perchè un giovane militare decida di farlo, se solo per soldi o se per motivi diversi, o ci si interroga su come e in che condizioni si è costretti a vivere quando si sta laggiù, lontani da casa, dai propri amici, dalle proprie famiglie, sempre con in mano un'arma per difendersi. Certo, vivere in un ambiente dove anche quando dormi, quando pranzi, quando cammini, hai un brivido di paura che ti perquote la schiena, non deve essere per nulla facile. Non per niente li chiamano eroi. La scelta che affrontano è sicuramente coraggiosa, qualunque sia la motivazione, perchè sanno, hanno la consapevolezza che, quando vieni mandato in certi posti, un giorno può andare tutto liscio ma il giorno dopo non si sa. Figuriamoci allora come può essere per un 28enne pacifista e antimilitarista, che vive alla giornata, con la passione per la macchina da presa ma senza mai un impiego fisso, ritrovarsi in un mondo e in una realtà come quella che vivono i militari in "missione di pace" in Iraq. E' esattamente questa la storia di Aureliano Amadei, un giovane romano come tanti, che nell'arco di pochi giorni si trasforma nell'unico civile sopravvissuto alla strage della caserma dei carabinieri di Nassirya avvenuta il 12 novembre 2003. Di questa tragica esperienza Aureliano parlerà prima in un libro dal titolo "20 sigarette a Nassirya", scritto con lo sceneggiatore Francesco Trento, e successivamente nel film dal titolo "20 sigarette".
Tutto prende il via quando Aureliano riceve la proposta dal suo amico regista, Stefano Rolla, di prender parte come aiuto regista alle riprese di un film che verrà girato in Iraq. Il giovane nonostante i dubbi e le critiche dei suoi amici, della sua famiglia, e soprattutto della sua "amica speciale" Claudia, spinto dalla sua passione per la cinepresa e dalla proposta allettante, accetta, e parte con un C-130 alla volta dell'Iraq. Ancora carico di pregiudizi e dubbi, soprattutto nei confronti di un mondo come quello militare che non approva, Aureliano inizierà a fare amicizia con i ragazzi con cui trascorrerà la sua permanenza nel campo militare, scoprendo che dietro la divisa ci sono dei giovani con un'umanità e un senso di fratellanza pari al suo. Il giovane Aureliano non avrà però il tempo di approfondire la conoscenza di quei ragazzi, non vedrà poi tanti tramonti nel deserto iracheno, non avrà la possibilità di essere l'aiuto regista di quel film o di conoscere gli attori con cui avrebbe lavorato. Le venti sigarette che compongono i titoli di libro e film, tengono il ritmo dello scorrere del tempo di permanenza del regista in Iraq, naturalmente un tempo molto breve, che mozzicone dopo mozzicone porterà inevitabilmente al tragico epilogo. Dopo pochi giorni dal suo arrivo in Iraq davanti agli occhi di Aureliano si consumerà la tragedia: lui rischierà di morire nell'inferno di un attentato che rimarrà per sempre impresso nella sua mente e nel suo cuore, di cui porterà addosso sempre le ferite. Rimarrà zoppo, costretto a camminare con un bastone per sempre, fortunatamente vivo da poter ancora raccontare la tragica vicenda, ma ormai diverso, cambiato rispetto all'Aureliano di prima. Così nasce la decisione di scrivere un romanzo e di creare da esso un film, per comprendere, per non dimenticare. Ne nasce una testimonianza estremamente soggettiva e realista che non vuole creare critiche o fare un'inutile morale su ciò che è giusto e sbagliato. Vuole solo raccontare una tragica storia, una come tante ormai visto la mole di attentati a danno dei nostri connazionali, ma vista dall'interno da chi c'è ancora e porta in sè la rabbia per l'ipocrisia e la falsità dello Stato che, solo quando accadono di queste tragedie si rende protagonista e utilizza la parola "eroi" per giustificare il destino di chi non c'è più. Una delle cose che colpisce se si guarda il film è la scena dell'attentato, che è il fulcro della storia intorno al quale tutto ruota. Il protagonista, interpretato da un bravissimo Vinicio Marchioni, non si vede più nell'inquadratura, sparisce trasformando ognuno degli spettatori nel protagonista Aureliano, che con l'esplosione viene sbalzato in aria per metri e cade atterra ferito. Grazie all'utilizzo della camera a mano e della soggettiva per le riprese, il tremolio e il tipo di inquadratura hanno reso la scena in maniera superba facendo vivere allo spettatore il pathos di quei momenti orribili. Aureliano è ferito ma si è salvato, si trascina con tutte le sue forze verso una possibile via d'uscita e viene caricato da alcuni civili iracheni su una macchina insieme ad un bambino che dopo poco tempo gli morirà tra le braccia. Scene così toccanti e tragiche si alternano a scene più leggere e quasi "comiche" come quella che racconta, tralasciando un'inutile retorica, il via vai, dal letto di Aureliano all'Ospedale del Celio (dove fu trasferito dopo una permanenza nell'ospedale americano in Iraq), di giornalisti, troupe televisive, ministri, rappresentanti dello Stato di qualsiasi livello. Infine, Aureliano conoscerà l'amore, proprio lui, sempre precario nel lavoro come nei sentimenti, finalmente capirà di amare Claudia e con lei avrà una bambina. Purtroppo però, anche dopo essersi conquistato un po' di tranquillità e serenità, ritornerà sempre a galla in lui l'ansia, il senso di colpa e la rabbia di chi è sopravvissuto che arriva a provare angoscia nel tenere la propria bambina in braccio perchè guardandola non riesce a non pensare a quel bambino che, pallido e sudato, è morto su di lui, la cui unica sfortuna è stata quella di nascere e morire in Iraq.
Cinzia Ferilli.
"...in questo libro ho solo raccontato la mia storia. Sono rimasto zoppo, mezzo sordo e soffro di attacchi di panico. Eppure non mi sono mai sentito una vittima. Non sono una vittima. Nè dei terroristi, nè degli iracheni, nè dei soldati italiani che hanno sottovalutato il rischio. Perchè anch'io in fondo penso di essere un carnefice, una piccola parte di quel meccanismo che quotidianamente si nutre di sangue, di quel sistema che fa trovare nello stesso posto Rolla a fare un film, dei soldati italiani a presidiare un territorio e dei terroristi a farsi esplodere, tutti quanti più carnefici che vittime e tutti quanti esseri umani, ma di tutto questo naturalmente ai funerali non se n'è parlato. L'apparenza sembrava il fattore dominante. Una parata piuttosto che un funerale. Tutta la città si era riversata per le strade. Sembrava che tutti quanti avessero bisogno di partecipare ad un dolore privato che era diventato pubblico..."
Nessun commento:
Posta un commento